Non amo molto la parola “corretto”. Niente di personale contro la parola in sé: niente da ridire, ad esempio, se si parla di un caffè corretto. A parte quello però, in generale la parola e i suoi derivati evocano immagini non proprio gradevoli: i compiti in classe del liceo, corretti con segni rossi e blu; le manovre fiscali correttive; gli istituti correzionali…
Participio passato del verbo “correggere”, già di suo un po’ antipatico, quando è usato come aggettivo ne eredita il significato: “…privo di errori; esente da difetti; formulato con esattezza…”.
Quello che, più di ogni altra cosa, mi rende antipatica quella parola, è il modo in cui essa viene usata nel nostro mondo professionale, quando è associata alla parola “progetto”.
Nelle riviste, sui cataloghi, nelle documentazioni, tutti si affannano a mostrare progetti corretti, o ad insegnarti il modo corretto di illuminare questo o quello. Come se, per un progetto, essere corretto costituisca chissà quale valore aggiunto. Ma essere “…privo di errori, esente da difetti…”, non dovrebbe essere il minimo per un progetto? Se, in una rivista di architettura, un progetto è descritto come corretto, state pur certi che la parola è usata con una accezione negativa, a sottintendere che sì, il progetto è corretto, ma niente di più. Se si parla di luce invece, la banale constatazione che un progetto non è sbagliato viene grandemente enfatizzata.
Usata in quel modo, quella parola diventa la sintesi delle contraddizioni che affliggono il nostro mestiere: nega valore al progetto come processo creativo, riducendolo ad un mero problema tecnico che ha una, e una sola, soluzione “corretta”; contraddice sé stessa; banalizza ciò che vorrebbe enfatizzare. Di corretto, è meglio soltanto un caffè…
(Da “Il corsivo di Oscuro”, in Luce e Design, n. 7/2006)