Il capitolo delle “definizioni” è quello che apre alcuni testi, di solito i più barbosi: manuali, contratti, leggi, regolamenti. Si chiarisce subito, all’inizio, cosa vuol dire cosa, e poi non ci si torna più sopra.
Per quanto questo sito non sia un testo giuridico e spero neppure altrettanto noioso, credo che qualche definizione possa essere utile anche qui.
Nella intestazione del mio studio, ne definisco l’attività con la dizione “progettazione della luce”, traduzione letterale di “lighting design”. Uso la forma italiana non per campanilismo linguistico, ma perché riassume meglio la concezione che ho del mestiere che faccio: il riferimento diretto al “progetto” ne sottolinea la centralità, rendendola immediatamente chiara. Credo infatti che il termine inglese “designer” possa essere fuorviante: sebbene la sua traduzione letterale sia appunto quella di “progettista”, esso viene usato in italiano con una accezione leggermente diversa, declinata in molte varianti, tutte intese a mettere l’accento sugli aspetti creativi: interior designer, industrial designer, graphic designer, fashion designer e così via. Non voglio certo negare la grande componente creativa che caratterizza il nostro mestiere; credo tuttavia che la piena integrazione nel processo di progettazione di architettura sia un aspetto più importante da sottolineare.
Anche la scelta della dizione “progettazione della luce”, in luogo della più usata “progettazione illuminotecnica”, non è casuale. Quest’ultima pone l’accento sulla tecnica, quasi a sottintendere per il progetto di illuminazione un carattere puramente funzionale. La padronanza della tecnica, nel nostro lavoro, è un prerequisito indispensabile, ma non sufficiente: il progetto della luce non può limitarsi alla mera verifica di parametri quantitativi, ma ha il dovere di integrarsi nel progetto di architettura.
06/2020